MAURIZIO VANNI
Una precisa analisi delle nostre sensazioni di fronte a un'opera d'arte ci porta a riconoscere che i capolavori agiscono su di noi in modo differente a seconda del nostro retaggio culturale, del nostro sistema nervoso centrale, del nostro grado di eccitazione e del piacere estetico che riescono a provocare. Ogni emozione percepita potrebbe corrispondere alla gioia che nasce dalla certezza di aver raggiunto una conoscenza (appannaggio di chi scopre una verità o di colui al quale viene rivelata). Il sapere non è limitato al mondo sensibile ma è proprio della sfera del pensiero, ha valore di linguaggio per lo spirito e potrebbe aprire la strada verso il mondo intellegibile. Di solito il pubblico si pone di fronte a un lavoro artistico munito solo del criterio del gusto: ma il segreto dell'arte sfugge alla sola inclinazione e il suo giudizio non si avvicina neanche al suo significato essenziale.
Davanti alle opere di Dina Cangi potrebbe tornare sovrana la domanda di sempre sulla possibilità o meno di decifrare un'opera d'arte contemporanea e in quale modo. Per comprendere i suoi lavori occorre entrare in sintonia con le sue componenti iconografiche e mentali in quella stessa valenza data, più o meno consciamente, dalla pittrice.
Quello della Cangi è un modo più di percepire e sentire che di raccontare, una volontà di ascoltarsi interiormente per identificare le tracce delle immagini che sono già in lei, dove il colore potrebbe essere simbolico, il ritmo compositivo significativo e dove spazi e volumi potrebbero avere un valore intrinseco con i loro suoni silenti, con le loro urla soffocate o in quei bagliori improvvisi di luce.
Per la pittrice aretina il problema dlla luce è una questione di rapporti, di contrasti, di stratificazione di materia tra chiaro e scuro dove l'uno prende il vita, si muove e si espande proprio in funzione dell'altro. Una luce che si propone come una sorta di forza della natura che delinea un trasfigurante paesaggio interiore che stimola a oltrepassare il dato di superficie proponendoci visiono alla stregua di un sogno, di un miraggio o di un lontano, vago e polveroso ricordo. Da una parte il bagliore ci apre allo spazio infinito e indefinito del fondo, dall'altra, nel suo svilupparsi all'interni dei volumi, ci traspone come all'interno di un frammento geologico che ci induce alla geomanzia. Nel mondo di Dina Cangi c'è come il gusto per una nuova rovina che potrebbe significare una sorta di coscienza del passato nella piena consapevolezza del suo superamento. Quello della pittrice toscana è dunque un percorso cosciente nella tradizione alla costante ricerca di una libertà da regole convenzionali, cercata attraverso un persoale rapporto con la storia dell'uomo. In fondo la sua militanza nell'arte della nostra contemporaneità sta proprio nell'usare l'espressione artistica con la mente indipendente dall'assillo di una sistematica necessità di novità, a vantaggio di un'attenzione alle esigenze della propria interiorità. L'episodio delle sirene nell'Odissea di Omero potrebbe chiarire meglio questo concetto: Ulisse, il solo autorizzato ad ascoltare il mortale canto di quegli esseri diabolicamente affascinanti, ha mani e piedi legati all'albero maestro, mentre i compagni remano rabbiosamente, fedeli ai precedenti ordini, per condurre l'imbarcazione in salvo tra Sicilia e Cariddi. Dina potrebbe essere considerata il moderno Ulisse, attratta dal sapere assoluto offerto dalle sirene (facili forme d'arte effimera richiesta dalla società-mercato) e tentata a lasciare il duro e costante lavoro dello studio per abbracciare mezzi espressivi meno ardui. La postura di Ulisse bloccato all'albero maestro potrebbe corrispondere a quei parametri che Dina si è imposta per fare arte: un perimetro predefinito entro il quale far muovere le sue forme interiori. I compagni di viaggio ben indottrinati potrebbero raffigurare la cieca fiducia nel passato, il suo voler creare un continuum tra arte antica e comtemporanea, dove il dipingere diventa un'esigenza fisiologica, tanto importante quanto bere o respirare. Spesso siamo portati a riconoscere ciò che è già noto in noi oppure ciò che ci appare familiare (ignorando il concetto freudiano secondo il quale basta dare il nome ad una cosa per farla esistere). E' per questo che, comunque, Dina potrebbe diventare lo specchio dei reperti di ognuno di noi, il riflesso della nostra memoria archeologica (altro termine caro a Freud nel definire lo scavo dell'analista nella mente del paziente).
Il progetto espressivo della Cangi non è certo finalizzato a fissare immagini statiche sopra la superficie del quadro, bensì a inseguire le tracce di quelle icone che, a livello mentale, si intrecciano e si frantumano costantemente in un rincorrersi mai troppo quieto. Una proposizione di esiti possibili e di necessità probabili inserite in un medesimo ciclo creativo, aperto e continuamente riformulato, che mira a delineare nuove prospettive di itinerario interiore.
Ogni suo dipinto diventa così un luogo di immagini ideali, di ammiccamenti, di analogie inserite in uno spazio relazionale. Una dimensione memoriale svincolata da ogni puntualizzazione referenziale occasione o troppo razionale, e sospinta verso una presupposta naturalità lirico-esistenziale. Lavori che si presentano come un campo di manifestazione e di recupero di una archeologica urgenza immaginativa. Non una fantasia evocante, ma una evocazione del fantasticare mirata a istituire una sorta di fenomenologia del possibile favolistico entro quel codice allusivo che potrebbe corrispondere alla mappa geologica dell'io umano dell'artista.