Dina
Cangi ha avuto in sorte di potersi coltivare la sua propensione alla
pittura, in lei felicemente connaturata, per buona parte solo assecondando
le proprie inclinazioni. Ovvero, affidandosi a un istintivo senso
della composizione, a un'accentuata sensibilità delle armonie
cromatiche e ai valori timbrici, e a una calibrata versatilità
nell'impiego dei materiali, dai più tradizionali e collaudati
ai più eterocliti e sperimentali. Dominando però tutto
quanto con una gastualità comunque controllata, che le consente
di costruire quasi plasticamente, con invidiabile sicurezza e con
pennellate decise, immagini fortemente evocative. E questo grazie
invece a un tirocinio artistico, a un allunato rigoroso che le hanno
permesso di liberarsi delle incertezze e delle goffaggini dilettantistiche,
per presentarsi sulla scena con u linguaggio già maturo e compiuto.
(...)
Lasciate le desinenze fortemente e intimamente intessute di un surrealismo
declinato alla Max Ernst e le delicate tenuità pastello, ella
ha innervato il suo modo di dipingere con terrestri pulsioni, immissioni
di pittura matematica, sposate a indirizzi informali. (...)
Ma la materia di Dina Cangi, sebbene protagonista, non trascende il
segno. E' invece tramite, mezzo impiegato per ancora descrivere un'emozione
personale, per filtrare un'immagine colta all'esterno, e farsela propria,
catturarla. In che modo? Svuotandola nella sua sostanza originaria
per riempirla con un'altra di diversa natura. Le realtà fenomeniche,
quotidiane, sono quindi meno pretesto, semplice spunto compositivo.
E l'artista pronta interviene a permealre fortemente di sè.
Così che i soggetti sono put sempre identificabili; eppure
alla fine ti domandi se si tratti di immagini descritte alla stregua
di nature morte, oppure a queste solamente analoghe; se non addirittura
delle stesse riflessi onirici; ovvero iconografie archetipe collettive,
ricercate nelle profondità abissali dell'inconscio.
Materia, quindi, come mezzo. Materia però anche esaltata nelle
sue preziosità più riposte, in virtù della padronanza
tecnica che l'artista è riuscita a conseguire grazie a uno
sperimentalismo tenacemente e quasi programmaticamente perseguito.
E finalizzato all'ottenimento del piacere, quasi tattile, che si può
cogliere in una increspatura cartacea, sulle rugosità e asperità
sugherose dei supporti - che rimandano con la loro trame inopinate
alle suggestioni dei frottages surrealisti -, in una torbida o grassa
pennellata, in un veloce guizzo aureo. E anzi è proprio nei
bagliri dorati - che baluginano, pulsano al di sotto dei pigmenti
- che la pittrice sembra aver colto il soffio vitale, l'anima vera
dei suoi dipinti. L'anima bella. Lo spirito che informa di sè
tutte le manifestazioni visibili, primigenio, dell'individuo singolo
come dell'umanità tutta; e del quale ciascun quadro può
definirsi una distinta incarnazione. Un'anima, bella, ripeto. Perchè,
alla fine, è comunque sempre alla bellezza che tende la pittrice.
Al fascino intrinseco della materia, che lei si propone di rivelare,
lavorando sapientemente, a passagi, con velature successive, partendo
da basi scure fino a liberare cromie sempre più sottili, preziose.
E attuando in tal modo una sorta di processo catartico.